giovedì 25 luglio 2013

Sul "controllo della propria mente"


La padronanza della propria mente, ribelle,
capricciosa e vagabonda, è la via verso la felicità.
Il saggio osserva continuamente i propri pensieri,
che sono sottili, elusivi ed erranti.
Questa è la via verso la felicità.
Come può una mente agitata comprendere la legge eterna?
Se la serenità della mente è turbata, la saggezza non può manifestarsi.
Fai della tua mente una fortezza e combatti le tentazioni
con l’arma della saggezza.
Nessuno, neppure il tuo peggior nemico
può nuocerti quanto una mente indisciplinata.
Ma una mente disciplinata
è un’alleata preziosa.


Dhammapada, La via del Buddha


In questo discorso, che è fondamentalmente corretto, c'è un serio errore ed è riferito alla finalità che è attribuita al controllo che deve essere esercitato sui propri pensieri. È indicata essere la felicità quel fine, ed è qui che si nasconde l'errore. Come si potrebbe essere felici senza la consapevolezza data dalla conoscenza? Controllare i propri pensieri non è conoscenza, ma è l'azione successiva al conoscere. Non si può indicare un mezzo di realizzazione di sé, quale è l'esercizio del controllo libero del proprio pensiero, senza illustrare le ragioni intime di questo dover controllare. Senza una perfetta conoscenza di queste ragioni ogni controllo può assumere il significato di una coercizione, e diverrà impossibile discernere ciò che è segno dell'esercizio della libertà… da quanto è conseguenza di paure. Gli errori, nell'analisi riferita alla supposta "Via del Buddha", non si fermano all'aver identificato la felicità come il supremo obiettivo dell'esistenza, errore facile a vedersi quando ci si chiedesse se si potrebbe essere felici senza essere perfettamente consapevoli, ma è esteso all'aver voluto identificare una via, quella del Buddha, alla moltitudine di vie possibili; ognuna di esse deve essere adatta alla caratteristiche individuali di chi cerca la perfezione del proprio stato, caratteristiche uniche come unici sono tutti gli esseri in ciò che li differenzia l'uno dall'altro. Come potrebbe convenire a tutti indistintamente una stessa e unica via che non tenesse conto delle differenziazioni personali? Resta vero che il controllo sul proprio pensiero è auspicabile e necessario, a causa del fatto che il pensiero costituisce il mezzo attraverso il quale si traduce in linguaggio consequenziale e logico ogni intuire di cui l'essere umano è capace, ma il credere che dietro a quel controllo sia celata la felicità è un'assurdità. La felicità è il modo attraverso il quale l'emozione diventa stabile ed equilibrata, perché la felicità è un'emozione. Potrebbe forse il controllo delle emozioni determinare un'emozione sempre in equilibrio sul filo teso del proprio sentire? E quel sentire, così vicino al sentire fisico che cambia incessantemente al variare del grado di salute, alle caratteristiche delle intrusioni ambientali, alle interazioni con gli altri esseri, quel sentire emotivo diverso come diverse sono le culture e le latitudini alle quali queste culture hanno preso forma e significato... questo sentire potrebbe sperare di essere capace di conoscere perfettamente solo attraverso il controllo del pensiero? Per riuscire a controllarsi allo scopo di mantenersi aderenti ai valori universali che si sono scelti come princìpi del proprio vivere… occorre prima conoscere quali debbano essere questi princìpi, i quali non dovranno essere di una natura emotiva, ma bensì intellettuale, perché i princìpi sono assi fissi in relazione ai loro effetti che attorno a essi ruotano, e nessuna emozione può vantare una fissità prima di essere il frutto dell'aver compreso le ragioni del tutto e anche i modi attraverso cui queste ragioni si attuano. La peste determinata dalle diverse morali che inducono alle guerre tra i popoli è generata dai diversi modi del sentire emotivo che distinguono, e distanziano tra loro, le qualità che hanno le diverse culture con i loro rispettivi credo religiosi. I princìpi universali, invece, non hanno in sé contaminazioni di natura emotiva. L'unica emozione che i princìpi universali hanno in sé è l'amore universale capace di sacrificare tutto tranne la verità. Ogni morale è determinata dall'intrusione del sentimentalismo nei princìpi ordinatori della manifestazione della realtà relativa che è attuata in conseguenza del sacrificio iniziale attraverso il quale l'assoluto unico Mistero si è riflesso, capovolgendosi nella molteplicità data da unicità, sempre diverse tra loro, che sono conseguenza dell'infinita creatività di ciò che è privo di limiti e che non partecipa all'esistenza se non attraverso l'irradiarsi del Centro nelle relative circonferenze che dal Centro derivano e allo stesso Centro ritorneranno.
Resta da dire che queste traduzioni degli scritti attorno al Buddhismo, così come a quelle riferentesi ad altre dottrine a carattere universale, risentono delle forzature date dal credere occidentale che si compiace di trovare riscontri orientali delle proprie errate convinzioni. Nello scritto dato come fosse originale espressione del Buddhismo c'è una evidente contraddizione, perché da una parte indica nel controllo del pensiero la via per ottenere felicità, ma poi dice che il pensiero deve essere controllato attraverso la saggezza, come se la saggezza fosse implicita all'esercizio del controllo di sé. È evidente che per riuscire a esercitare un saggio controllo occorra prima essere saggi, ma chi si sprecherebbe a magnificare il controllo prima di avere esposto cosa sia la saggezza che deve qualificare questo controllo?

Lo scritto dice che se c'è calma interiore la saggezza si manifesterà, ma questo dire capovolge la realtà, perché se non c'è saggezza non ci potrà mai essere una qualsiasi calma interiore, perché l'agitazione costituisce proprio l'effetto dato dall'assenza di saggezza.

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